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La luce della crepa. Due parole su L’età della febbre

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di Tommaso Ghezzi

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L’età della febbre – Storie di questo tempo (minimum fax, 2015) è lo Scherzo – inteso come movimento musicale di una sinfonia, di solito “allegro” o “vivace”, rispetto al “moderato ternario” del minuetto che solitamente lo precede – della scrittura consapevole contemporanea. Lo ha preceduto, esattamente un decennio fa, La qualità dell’aria; un movimento musicale più pacato, che accompagnava una danza di piccoli passi consequenziali, configuranti l’ovvietà dei gesti che si sarebbero dovuti legare in successione. Curatori sono Christian Raimo e Alessandro Gazioia, editori/critici/autorità che incarnano l’ufficio della qualità letteraria, oggi, in Italia.
Accademia americana dell’impalcatura formale, minimum fax è il veicolo principe della diffusione di americanistica in Italia, sia letteraria che “culturale” (livellatura abulica di cultura alta e cultura bassa, scismi inesistenti tra oculistica critica ufficiale e letteratura di genere, fino a qualche decennio fa posta al margine dello spazio letterario).  E la scuola americana si espone fortemente nelle forme date ai racconti. Per non parlare della dichiarata ispirazione anglosassone del procedimento editoriale all’ufficio della collazione dei testi, della loro elaborazione, della loro apparente programmatica. L’età della febbre si presta ad essere strumento analitico del presente. “Storie di questo tempo” è una linea di coerenza interna, dichiarata dai curatori nell’introduzione, che impiantano un interessante aspetto di correlazione tra la vecchia raccolta e quella nuova;

Dieci anni dopo, e dopo che molti di quegli scrittori – da Valeria Parrella a Emanuele Trevi, da Mauro Covacich a Paolo Cognetti – sono diventati voci autorevoli, anzi imprescindibili, della letteratura italiana contemporanea, ci è sembrato che un’ulteriore trasformazione fosse avvenuta, e che questo tempo andasse raccontato nuovamente da altre voci.

Ed ecco che le divergenze tra le due raccolte richiamano ben più ampie divergenze umane, storiche, contestuali.
Come scesi in una bulimia argomentativa cordiale, i nuovi narratori sembrano completamente staccati dalla Storia, che invece si affacciava nella narrazione, imponendo dirottamenti e obblighi temporali (si rilegga, ad esempio, la lucidità back-forward in Io Sarò Stato? di Antonio Pascale) ne La qualità dell’aria. Lì la generazione del dopo-Genova, rovesciava nel calderone dello scarto la lotta intestina e la sua totale inaffidabilità, adesso una nuova generazione post-atomica percepisce la frattura del nuovo decennio in senso estraniante. L’Italia, negli anni zero era ancora acquisita scientemente come paese dovizioso, con emergenze sociali più o meno totalmente accettate, con movimenti moltitudinari ampiamente condivisi e riconoscibili, un paese dalle certe disponibilità finanziarie, mentre l’ondata generica della tecnologia pervasiva, la fine dell’era Berlusconi e soprattutto una crisi economica non prevista, ha reso le carte in tavola non intellegibili. Oggi, la generazione che tenta di formulare una poetica condivisa, che mette insieme tessere di immagini e suggestioni, preferisce abbassare lo sguardo e – anzi – rimpiangere certi moventi del passato, per quanto stupidi, per quanto immorali, per quanto sfavorevoli, e ridurre la possibilità metamorfica della società massificata a lavoro intimo delle particolarità, convincimento del singolo, concentrarsi narratologicamente sui singoli avatar, per comporre il mosaico di un presente in moto, assolutamente non univoco.
I vecchi narratori avvertivano come nuova e stimolante la rigenerazione e lo sdoganamento della fantascienza, del fantasy, della distopia e della letteratura “di genere”. Spiattellavano questo nuovo universo referenziale, consci della loro assoluta modernità e potenza, mai restii o autolimitanti, senza la pretesa di essere presi sul serio. Quella retorica pare, oggi, addirittura superata. L’età della Febbre è come un risultato del rappel à l’ordre dopo la sbronza del quinquennio fatale 2009-2014; la ridefinizione delle forme, il ritorno al figurativo dopo le avanguardie, in cui i moti più estranianti planano su acute gestioni di un surrealismo edotto (l’Avezzano di Paolo Sortino ne Il Casco Verde) o su una distopia lancinante, congestionata (L’università futuribile che Emmanuela Carbé descrive in Alta Marea). Lo spazio e le scenografie sono oblunghe, sature di calore e odori. Tutto assume i toni della rovina dopo i bombardamenti, della terra che succede all’olocausto atomico. Roma e Milano sembrano città-milza umide e agrodolci, speziate, sommerse da un silenzio che sottace tensione perpetua. Anche i racconti che narrano la generazione erasmus, storie di transizioni, di migrazioni e di ricerca, sono pervase da questo continuum di piattezza e irrisolutezza (ed è il caso di Vanni Santoni e Vincenzo Latronico che raccontano l’epoepa delle fughe e dei ritorni dall’Italia, la ricerca di un luogo, un contesto favorevole per definire una qualsivoglia giustezza esistenziale, l’ipotesi di felicità).
Le storie de L’età della febbre sono definite dall’ossessivo refrain dell’evasione, che mancava ne La qualità dell’aria, dove, ad esempio, Cognetti – ma più o meno tutti – ci mostrava personaggi immersi nei loro contesti quotidiani,normalizzati, o Pincio ci mostrava come l’evasione fosse un vagabondare del Dharma più o meno consapevole, un viaggio in Thailandia di un outsider sociale. Nella nuova raccolta l’orizzonte dei piani sequenza è molto più vasto, le storie oscillano tra l’Italia e l’estero, spesso con switch ardimentosi. Come se l’uscire dall’Italia, rappresentasse oggi lo step irrinunciabile per diventare adulti.
Se ne La qualità dell’aria le forme di estraniamento erano spie accese, campanelli d’allarme, di un avvenire corrosivo e implosivo, adesso L’età della febbre è pervaso da un omogeneo senso d’inquietudine, da una soffusione di toni freddi, cupi, ma lucidi. Completamente diversa la raccolta di dieci anni fa, sempre proiettata verso gli altri mondi, il cui marchingegno funzionava per spinta centrifuga auto sostentante.
La stilistica dei nuovi racconti è “molto meno italiana” rispetto a quelli della raccolta di dieci anni fa. Alcuni episodi dimostrano una prosa che può essere percepita come “tradotta”, scarnificata, spolta da qualsiasi artificio, con pluridimensioni omogeneizzate dalla fluidità dei racconti. Fare due passi di Chiara Valerio, in questo caso, si pone come exemplum stilistico; una tirata salingeriana genuina, riflessiva ma estraniante, il racconto più stilisticamente “cannibale” della raccolta, che porta con se la nuova tradizione del racconto breve italiano, definita dalle raccolte degli ultimi trent’anni, da Tondelli in poi. I fraseggi concatenati ed imprecisi del periodare, le strutture paratattiche, continuative, esibiscono franchezza retorica, sincera come la liscitudine dei racconti vaghi dei bambini.
Questo ci fa capire quanto dieci anni fa fossimo proiettati verso un futuro ampio e disponibile; internet era la chiave di volta per un nuovo ciclo di sviluppo, senza che il suo lato oscuro si rivelasse nel suo potenziale devastante. Adesso il new weird italiano, con i suoi accenni all’estetica seapunk e alla fantascienza tradizionale, non è più proiettato, anzi subisce il presente e dichiara il terrore di un’umanità che si è – forse – spinta troppo in là.
In tutto questo, il lavoro di Christian Raimo e Alessandro Gazoia è stato certosino, di finissima sensibilità del presente, nonché correlazione di un’importante mappatura dello spazio letterario della prosa narrativa contemporanea. Hanno superato la stridente atemporalità dell’alieno di Ennio Flaiano a Roma, l’imbarazzo del proporre la novità in mezzo all’arretratezza, catalizzando tutta la forza possibile nella forma racconto. Ecco, il pregio principale di L’età della febbre, la riqualificazione della forma breve, la short-story, ovvero la forma migliore per raccontare questo tempo. Questa frazionata serie sfarfallante di segmenti asincroni, atopici, prospettive senza punti di fuga, solo tendenze, appercezioni di proiezioni inverse.
La citazione di Leonard Cohen, immessa nel racconto di Violetta Bellocchio, assume in fondo il motto generale per avvolgere un senso unico di tutta la raccolta

C’è una crepa
Una crepa in tutte le cose
È da lì che può entrare la luce

In L’età della febbre ci sono storie di crepe. Cesure. Rotture di un presente stantio, improduttivo, poco stimolante. Una quotidianità ossequiosa, nella quale la letteratura non può che scandagliarne i marchingegni. Da adesso in poi, ogni volta che Raimo, Gazoia, Lagioia o altri dell’universo minimum fax, imposteranno una raccolta di questo genere, avremo con certezza il segnale manifesto d’essere alla fine di un ciclo, e all’inizio di un nuovo, come una mestruazione emotiva sociale letteraria, alla fine della quale, non si può che sanguinare.



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